La peste del 1743 a Reggio Calabria

medicopestedi Giuseppe Chirico - Trecento anni fa, nella primavera del 1720, una tremenda pestilenza colpì Marsiglia: il contagio, come di consueto, giunse dal mare su un vascello proveniente da Oriente, e si diffuse grazie all'imprudenza di chi cercò di occultarlo e di chi non seppe gestirlo. Quella marsigliese fu una delle ultime grandi epidemie europee di età moderna, ma, per l'appunto, non fu l'ultima.

Pochi anni dopo, nel marzo del 1743, un mercantile genovese salpato da Levante attraccò a Messina, portando con sé il morbo letale che presto si diffuse nella città dello Stretto. Avutane notizia, le autorità reggine presero le dovute precauzioni vietando i contatti con la sponda opposta, ma diversi marinai della Fossa (attuale Villa San Giovanni) non cessarono l'esercizio del contrabbando, attività da sempre fiorente tra la Calabria e Messina tanto quanto i commerci, e importarono il contagio sulla terraferma: due di loro, i fratelli Lombardo, furono i primi a morire nel mese di giugno.

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Inutile fu ogni tentativo di circoscrivere l'epidemia isolando la Fossa, da cui la peste si propagò velocemente a Reggio, meta dei traffici illeciti. La prima vittima in città fu la figlia del calzolaio Paolo Spanò, uno dei gestori del mercato nero, morta il 7 luglio 1743 e seguita pochi giorni dopo da una sua sorella; anche il frate francescano Orazio Griso, uno dei principali direttori del contrabbando assieme al calzolaio, morì il 15 luglio, e il 16 fu poi la volta di un'amica di famiglia di casa Spanò. Tali decessi sospetti, ravvicinati nel tempo e avvenuti nello stesso quartiere – quello di porta Mesa, lungo il lato nord della cinta muraria cittadina – non lasciarono spazio a dubbi, e il timore della peste prese a circolare tra i reggini.

Le autorità locali, nondimeno, «conchiusero che non v'era ragione a spaventarsi, perché quelle persone erano finite di febbre maligna, come portava la stagione» – ricorda Domenico Spanò Bolani – «e mentre il tremendo morbo si dilatava irresistibilmente, facevasi intendere agl'infelici abitanti che stessero di buon animo». Crescendo il numero dei morti nella Mesa, tuttavia, i tentativi di negare l'evidenza dovettero cedere il passo alla ragione, e la pestilenza fu infine ufficializzata.

Si provò a isolare la zona del focolaio, ma inutilmente, perché il contagio si era ormai già trasmesso ad altri rioni. Racconta ancora il grande storico reggino: «Sentendo incordonato il borgo della Mesa, tutti i cittadini, massime i negozianti, artigiani e bottegai si chiusero spaventati nelle loro case; ma i sindaci ed il governatore, a cui Dio aveva tolto il senno, volendo acchetare il pubblico terrore ordinarono che ognuno, pena il carcere e la confisca della roba, dovesse riaprir subito la propria bottega. Ciò contribuì moltissimo a diffondere la pestilenza: tutto fu allora confusione e spavento; a tutti in quello istante si offerse in mente lo spettacolo della bella e popolosa Messina, divenuta vasto sepolcro».

Reggio venne allora cinta da cordoni sanitari che resero impossibili spostamenti e attività di ogni genere. Un primo cordone, posto immediatamente attorno alla città, andava dalla torre di Pentimele a nord a quella di Sant'Agata (torre Lupo) a sud, mentre un secondo e più ampio cordone, che si dispiegava oltre i confini cittadini, andava dalla torre Cavallo (presso Bagnara) a nord al territorio di Motta San Giovanni a sud, estendendosi più a monte e quindi a est del primo. Queste barriere consistevano in serie di fossati e palafitte ed erano presidiate da uomini armati, generalmente otto tra soldati e personale civile prestato dagli enti locali. Per maggior sicurezza, le autorità napoletane fecero approntare altri due cordoni ancora più a nord, uno tra Sant'Eufemia (Lamezia) e Squillace, e uno tra Cetraro e Rossano, ai quali si aggiunsero serrati controlli via mare esercitati da un'apposita flottiglia.

Durante il 1743, mentre «il morbo orribilmente imperversava; e deserte erano tutte le vie della città; ed era divenuta necropoli la bellissima Reggio», per Spanò Bolani si contavano tra sessanta e cento morti ogni giorno, «ed ai morti di fame e di peste s'aggiungevan quelli, che morivano giustiziati, o per aver violato il cordone, o per aver avuto contatto con persone infette». Secondo Damiano Polou, l'arcivescovo reggino del tempo, dal luglio del 1743 ai primi del 1744 si registrarono 3.695 decessi su una popolazione totale di 14.570 abitanti.

Le misure governative per il contenimento dell'epidemia ressero bene, così come i piani di approvvigionamento dei viveri grazie ai quali Reggio non subì, almeno inizialmente, la carestia che nella città sorella mieté invece vittime al pari della pestilenza: Messina, esclusi i villaggi del contado, perse quasi il 70% della sua popolazione, che scese da 40.321 a 12.480 unità.

Nel 1744 la diffusione del contagio sembrò stabilizzarsi, e i tecnici veneziani che avevano sanificato la città dirimpettaia si trasferirono a Reggio, pronti per iniziare il cosiddetto spurgo anche su questa sponda dello Stretto. Ma il governatore cittadino Diego Ferri, perverso e violento, mosso da interessi personali fece ritardare più volte l'avvio delle operazioni, causando la recrudescenza dell'epidemia e dei decessi e le conseguenti violente proteste da parte della cittadinanza, immiserita dalla chiusura dei commerci e sfinita dai perduranti disagi.

Vere e proprie rivolte armate, partite dagli abitanti delle borgate extra moenia di Sbarre, Santa Lucia e Santa Caterina, coinvolsero un gran numero di reggini, ma furono represse nel sangue con gli inganni e con le armi dei temuti soldati svizzeri. A ciò si aggiunsero varie esecuzioni sommarie decretate dal Ferri e dai suoi bravi per fini personali, sorte che toccò, tra gli altri, anche al medico veneziano Pietro Polacco, direttore dello spurgo, e al suo stretto collaboratore Antonio Bellebuono, torturati e uccisi all'interno del castello per aver denunciato l'operato del governatore.

Il sentimento di precarietà e il senso di una morte sempre imminente, tipici di quei giorni tristissimi, si possono percepire da un appunto del 1745 del notaio reggino Giovan Battista Casile, apposto di sfuggita su un suo protocollo in un momento di evidente sconforto: «tempo di Peste, ognuno penzi à se stesso, e chi si può salvare, salvasi».

Ai primi del 1746, però, per ordine delle autorità della Capitale si iniziò a fare giustizia contro gli oppressori dei reggini, e poté aver luogo il tanto atteso spurgo. Dopo quattro mesi di lavoro, il 2 luglio 1746 fu annunciata solennemente la fine dell'epidemia, e «fu dichiarata perfetta la salute pubblica, e libero il commercio interno ed esterno».

Secondo Antonio Maria De Lorenzo, su una popolazione di circa quattordicimila abitanti, a perire durante la pestilenza furono circa quattromila persone. Per Domenico Spanò Bolani, invece, i morti di peste furono quasi cinquemila, altri cinquecento morirono di fame e di stenti, e almeno altri cinquecento caddero uccisi per mano degli scagnozzi del governatore Ferri, per un totale di circa seimila vittime. Quali che siano le cifre esatte, si può affermare che circa un terzo della popolazione reggina scomparve in quei tragici anni. E il notaio Casile? Si salverà: morirà nel suo letto, ormai anziano, nel 1774.