Che futuro ha una comunità che lascia sola una giovane donna abusata?

melitoportosalvovista 500di Claudio Cordova - Il rock ha sempre ragione. Non a caso, i Litfiba cantavano "non è la fame, ma è l'ignoranza che uccide". Se (forse) può starci l'esultanza di amici e parenti per la decisione del Tribunale di scarcerare tutti gli imputati, è inaccettabile (ed è frutto di ignoranza) gioire per una sentenza che ha condannato i propri figli, fratelli, nipoti, cugini per violenza sessuale di gruppo. Più volte, parlando del contesto di Melito Porto Salvo, dove sarebbero maturate le violenze su una 13enne, si è parlato di omertà, di mentalità mafiosa, di consenso sociale agli aguzzini e, viceversa, di criminalizzazione della vittima. Se, infatti, è quasi scontato ascoltare uomini che minimizzano un crimine di genere, quando sono donne, mamme, a dire che, in fondo, una ragazzina di 13 anni "se l'è cercata" perché provocava, beh... questo sì che butta giù il morale.

Ed è triste vedere come le indagini, gli arresti, il processo e le condanne non abbiano scalfito minimamente una mentalità così retrograda.

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In tutti gli articoli pubblicati su questa testata l'abbiamo chiamata Sally. Come la canzone di Vasco Rossi o, meglio, quella di Fabrizio De Andrè. Perché "Sally" è (stata) una ragazza problematica. Ma non per questo, meritava di subire quello che ha subito: violenze fisiche ed emotive, ma, soprattutto, tanto isolamento, tanto disprezzo. Anche in aula, dove alcune difese hanno rimestato nel torbido, tentando di spostare la prospettiva. Si è tentato di far passare gli imputati per dei giovanotti che avevano commesso una marachella. Invece, la giovane è stata denudata di ogni più intimo segreto. Si è sottovalutato il peso, enorme, che può avere il cognome Iamonte in una realtà come Melito Porto Salvo. Del resto, "non è un processo di 'ndrangheta" hanno detto alcuni avvocati. Dimenticando però che la vita è anche, anzi, soprattutto, fuori dalle aule di giustizia. E quindi tralasciare cosa poteva significare il coinvolgimento del rampollo di 'ndrangheta nella vicenda, era, ed è, un segno di delinquenza intellettuale.

Abbiamo seguito il processo fin quando c'è stato consentito. Poi abbiamo accettato (pur non condividendo) la scelta del presidente del Tribunale, Silvia Capone, di estromettere il pubblico. Alla fine, nonostante i mal di pancia delle difese, siamo riusciti a far riaprire le porte. Perché era giusto che la collettività sapesse. Abbiamo mostrato interesse fin da subito e senza interruzioni per una vicenda, per storie di esseri umani che, da qualsiasi parte si guardi la storia, lasciano macerie. Quando sarà grande e – glielo auguriamo di cuore – avrà messo alle spalle la drammatica storia vissuta, potrà ricordare di aver avuto poche persone disposte a crederle e a fare scudo di fronte a tanto squallore: tra queste, certamente la Procura della Repubblica e, in particolare, il pubblico ministero Francesco Ponzetta.

Che le serva per credere nelle Istituzioni sane.

Di quelle malate, da quelle create ad hoc solo per la carriera di qualcuno, deve sempre diffidare, invece. Perché l'hanno lasciata sola, al pari di tutti gli altri.

Il processo "Ricatto" ha portato alla condanna di 6 degli 8 membri del branco accusati di averla soggiogata per anni. A questa cifra va aggiunta una ulteriore condanna emessa dal Tribunale dei minorenni per un altro soggetto. Il processo al branco, celebrato a porte chiuse, era stato aperto al pubblico per la discussione finale dal Tribunale che aveva accolto (devo dire sorprendentemente) una richiesta avanzata dal sottoscritto. Ebbene, alla lettura del dispositivo, oltre al solito folto numero di gentili amici e parenti degli imputati, non c'era una Istituzione, una associazione, un collettivo. Niente di niente. Solo parenti e amici. Pronti a schernire, talvolta a insultare. Quando invece avrebbero solo dovuto ringraziare per l'interessamento a una vicenda in cui si è sempre cercato di trattare tutti come esseri umani.

A differenza di quanto accaduto a Sally.

La ragazza è stata lasciata sola mentre soffriva e anche quando ha avuto la forza di ribellarsi. Nessuno tra le varie Commissioni Pari Opportunità, Osservatori, Consigliere, associazioni W la vagina, organizzazioni di donne che si battono come leonesse perché è importante dire "sindaca" e non "sindaco". Se costoro avessero un po' di dignità, non dovrebbero dimettersi dalle rispettive cariche, ma chiedere direttamente lo scioglimento di tali carrozzoni che sputano fuori solo comunicati stampa. Non sono degni di rappresentare le Istituzioni. Istituzioni (quelle vere) peraltro totalmente assenti: neanche un rappresentante della Regione, della Città Metropolitana, nemmeno il sindaco di Melito Porto Salvo (che invece, come emerge dagli atti processuali, avrebbe in passato dato solidarietà a uno degli imputati).

Non era una passerella. Quindi ci si poteva assentare.

Eppure, a Sally serviva un conforto. Serviva che passasse il messaggio che non per tutti era una puttana. Che per qualcuno gli animali erano gli altri. Perché, come canta Vasco Rossi, "ha patito troppo, ha già visto che cosa ti può crollare addosso". Nel silenzio di tutti. Proprio a Melito Porto Salvo, dove tutte le cose si sanno, dove se hai l'amante sei l'argomento principale ai bar e nei circoli, lì nessuno aveva visto o intuito nulla. E ancora una volta, la prova che per perpetrare gli abusi su una minore serve, necessariamente, la complicità, seppur implicita, di un'intera comunità. Che poi è stata a guardare.

Dalle folle delle passerelle, dalle intellettuali femministe, ci siamo anche dovuti difendere quando abbiamo definito "cazzi piccoli" i membri del branco. Ci è stato detto che quello era un articolo sessista, che puntava sul machismo (o sull'assenza di machismo). Lo rivendichiamo. Ma, soprattutto, rivendichiamo di esserci schierati dalla parte giusta. Che è la parte della verità, della giustizia, la parte di chi era in difficoltà. Di chi – rimanendo su De Andrè – aveva attraversato e stava attraversando un "bosco scuro". Un po' meno, oggi.